Quello della giustizia penale è un tema estremamente complesso, che coinvolge i principi cardine dello stato di diritto, il perseguimento della legalità, le ragioni della pretesa punitiva statuale e le funzioni della pena, la sicurezza della collettività. E, dal punto di vista dei singoli cittadini, impatta sulle loro vite e il loro dolore, siano essi vittime o autori di reato. Un terreno contrassegnato dalla complicata ricerca di soluzioni di equilibrio, capaci di bilanciare i principi del giusto processo, le garanzie del sistema accusatorio, l’esigenza della ragionevole durata, la missione costituzionale della pena.
Difficile trovare traccia di tutto ciò nelle politiche penali prodotte negli ultimi decenni, ostaggio dell’eterno conflitto tra magistratura e classe politica. Politiche contrassegnate nel tempo dapprima dal “garantismo selettivo” dell’era delle “leggi ad personam”, generatrici di sacche di impunità per i reati dei cosiddetti colletti bianchi e della contestuale penalizzazione della devianza dei soggetti marginali; poi dall’uso - e l’abuso - simbolico del diritto penale, forgiato sulla retorica securitaria e sulla costruzione di spauracchi sociali, in primis con la criminalizzazione dell’immigrazione; fino al populismo penale degli ultimi anni, con la continua promessa di repressione come unica risposta efficace al contenimento ed alla prevenzione di ogni tipologia di crimine e devianza e della demagogia sulla certezza della pena intesa come certezza del carcere, all’origine delle modifiche introdotte sulla prescrizione dei reati con la cosiddetta “legge spazzacorrotti” e del Disegno di legge di riforma della giustizia penale promossa dal precedente Ministro Guardasigilli.
In questo contesto, anche a tentare di correggere alcune delle contraddizioni aperte da questi ultimi due provvedimenti, si inserisce la “Riforma Cartabia” della giustizia penale. Una riforma che, già nella sua genesi, risente di una serie di limiti.
Si tratta, anzitutto, di una riforma “imposta” dall’Europa, in quanto identificata come una delle condizioni preliminari all’ottenimento dei 191,5 miliardi dei fondi NexGeneration EU; pertanto, in buona parte vincolata nell’obiettivo: la riduzione del 25% dei tempi del giudizio penale e quindi dichiaratamente costruita sul perseguimento di questa finalità.
Un riforma vincolata, di conseguenza, nei suoi tempi di approvazione, con la necessaria compressione e contingentamento del dibattito parlamentare sui suoi contenuti.
Una riforma, inoltre, costruita come pacchetto, ancorché corposo, di modifiche che intervengono ad emendare, correggere e migliorare il Disegno di legge delega sulla giustizia penale licenziato dal Ministro Bonafede.
Una riforma, infine, dalla natura fortemente compromissoria, maturata in un contesto politico complesso, nell’ambito di una maggioranza ri-composta per governare l’emergenza in corso, e che è il risultato di più mediazioni tra forze politiche che sulla giustizia penale esprimono posizioni antitetiche.
Per queste ultime ragioni, tutto il dibattito, sia quello parlamentare che quello pubblico, sui contenuti del testo si è completamente avvitato intorno al tema della prescrizione dei reati, in ragione della fortissima valenza ideologica di cui è stato caricato.
Se è vero che la eccessiva durata dei tempi della giustizia costituisce un male atavico del nostro sistema, gli interventi in materia di prescrizione non possono identificare la soluzione al problema, né il numero elevato di prescrizioni che si maturano può essere considerato in sé una causa del malfunzionamento della giustizia, ma ne è l’effetto.
Le ragioni della eccessiva durata dei processi penali non attengono tanto a questioni di natura procedurale, quanto anzitutto a problemi strutturali, di natura organizzativa, di funzionamento efficace della “macchina della giustizia”.
Anche per questo, non è pensabile scaricarne gli effetti sui cittadini, siano essi imputati o persone offese dal reato; con il blocco della prescrizione dei reati nel primo grado di giudizio, la “legge Spazzacorrotti” sortiva infatti il duplice effetto di introdurre da un lato la condizione “dell’imputato a vita” e, contrariamente ai proclami sulla loro tutela, di pregiudicare le stesse ragioni delle vittime ad ottenere una risposta di giustizia in tempi certi.
E, in termini di principio, sul punto la riforma Cartabia ha quantomeno il merito di aver invertito la rotta rispetto all’impianto originario del disegno di legge Bonafede e di rimediare a quelle macroscopiche lesioni del diritto di difesa che si sarebbero prodotte altrimenti.
Lo si è fatto, per altro verso, con una scelta molto discussa, che non interviene a modificare nuovamente la disciplina della prescrizione dei reati, ma che introduce termini precisi di conclusione dei giudizi in grado di appello ed in Cassazione, superati i quali scatta il meccanismo della improcedibilità.
Una volta superati gli allarmi di parte della politica e della Magistratura sui processi che si sarebbero così “mandati in fumo”, grazie alla mediazione raggiunta con l’introduzione di norme transitorie fino al 2024, all’entrata in vigore graduale dei nuovi termini di durata massima dei processi ed al regime prescrizionale speciale introdotto per alcuni gravi reati (associazione di stampo mafioso, terrorismo, violenza sessuale e associazione criminale finalizzata al traffico di stupefacenti), restano in piedi comunque alcune perplessità di fondo sulla scelta della cosiddetta prescrizione processuale.
La ragionevole durata del processo, secondo i dettami costituzionali, rimanda infatti alla necessità che il processo si concluda in tempi congrui con una decisione nel merito dell’accusa e non con una pronuncia di non luogo a procedere; ciò sia nell’interesse degli imputati che delle persone offese dal reato. Sarebbe stato preferibile, pertanto, un nuovo intervento di modifica della prescrizione sostanziale, come del resto era previsto nelle proposte elaborate dalla Commissione dei tecnici, presieduta da Giorgio Lattanzi, che ha prodotto il testo base della riforma.
Tuttavia, come sopra accennato, per conseguire gli obiettivi che ci si prefigge di riduzione dei tempi e coniugare, nell’interesse dei cittadini, ragionevole durata e giusto processo, la vera partita si gioca sul piano del funzionamento complessivo della macchina della giustizia, attraverso interventi strutturali che garantiscano il rispetto di quei tempi.
Sotto questo profilo, i fondi del PNRR rappresentano un’occasione irripetibile di investimento per il rafforzamento ed il rilancio dell’organizzazione della giustizia. E, sul punto, il disegno della Ministra Cartabia si colloca nella direzione corretta, con un importante rafforzamento delle dotazioni di risorse e strumenti, l’incremento del numero di magistrati e del personale amministrativo, lo sviluppo del processo penale telematico e la digitalizzazione del sistema di deposito degli atti e delle notificazioni.
Sotto altro aspetto, sebbene la riforma preveda un intervento molto complesso, che investe tutte le fasi e i gradi di giudizio, resta comunque monca di una parte essenziale. L’altro grande terreno che dovrebbe essere contemplato in un percorso autenticamente riformatore della giustizia penale, da accompagnare agli interventi sul processo e sull’organizzazione, è quello della depenalizzazione. La depenalizzazione della pletora di fattispecie penali, di ridotto o inesistente allarme sociale, in buona parte frutto delle politiche pan-penalistiche degli ultimi anni, consentirebbe di decongestionare le aule di giustizia da migliaia di fascicoli, di garantire un esercizio giusto ed uniforme dell’azione penale obbligatoria, di superare le penalizzazioni delle marginalità, come nel caso delle norme penali sulle droghe, che a loro volta contribuiscono in maniera decisiva al sovraffollamento penitenziario. Nelle politiche messe in campo e nelle prospettive di breve termine questo ragionamento manca del tutto ed andrebbe recuperato.
Su un piano più generale, infine, l’aspetto maggiormente condivisibile della riforma Cartabia riguarda l’approccio culturale garantista che complessivamente la ispira e che segna un deciso cambio di passo rispetto alle politiche precedenti. La visione di giustizia penale che l’ha informata, coerente con i dettami costituzionali, in particolare con la missione rieducativa della pena di cui all’art. 27 della Costituzione e quindi di netto superamento delle concezioni carcerocentriche della giustizia, ne costituisce l’aspetto più apprezzabile.
Questo approccio garantista e costituzionalmente orientato si è tradotto nella riscrittura del sistema sanzionatorio, attraverso il potenziamento delle pene sostitutive non detentive, l’estensione della causa di non punibilità per tenuità del fatto, la revisione delle sanzioni pecuniarie, il rafforzamento dell’istituto della messa alla prova.
Sebbene nel corso delle mediazioni con le diverse forze politiche anche questa parte del testo sia stata ridimensionata, abbandonando la proposta originaria della Commissione Lattanzi sulla “archiviazione meritata” e la conseguente valorizzazione delle finalità rieducative della pena, essa rimane, in termini culturali e di visione, la parte migliore e più avanzata della riforma.
Nella stessa ottica si inserisce, da ultimo, l’importantissima novità della introduzione della giustizia riparativa nel sistema e l’accesso ai relativi programmi di riconciliazione tra autori e vittime di reato in ogni fase del procedimento.
La prospettiva della giustizia riparativa indica un orizzonte nuovo e rimanda ad una visione di giustizia alternativa; una dimensione che rimette al centro le persone: vittime, autori di reato e l’intera comunità, per gestire le conseguenze dei reati non più in termini retributivi, di distribuzione di colpe e di punizioni, ma di ricostruzione delle relazioni.
In questa direzione, la riforma Cartabia presenta importanti potenzialità di sviluppo ed innovazione e apre l’opportunità per le organizzazioni della società civile, da tempo impegnate nella promozione della cultura della riparazione e nella sperimentazione sul campo delle relative pratiche e percorsi riparativi, di fornire un contributo prezioso sia sul piano dei contenuti, da disciplinare in sede di attuazione della legge delega, che della loro implementazione. Su questo terreno, tutto ancora da costruire, l’auspicio è che il nostro contributo venga raccolto e valorizzato.
A cura di Laura Liberto, Coordinatrice nazionale Giustizia per i Diritti