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Editoriali

legalita sicurezza 2015 02 13

Nel novembre del 2011 un senzatetto fu trovato morto in un accampamento di dimostranti, improvvisato presso il Pioneer Park di Salt Lake City (USA). La morte fu causata da un mix di droghe e monossido di carbonio, le cui esalazioni provenivano da una stufa portatile; l’incidente rese evidente alle forze dell’ordine che non era più sicuro per i dimostranti rimanere nel parco durante la notte.
Chris Charles Burbank, capo della Polizia di Salt Lake City dal 2006, incaricato dello sgombero, decise di utilizzare metodi completamente diversi da quelli adottati in casi simili, dove l’uso della forza sembra essere la miglior garanzia possibile di un risultato certo.

Recatosi al parco, B. parlò con i dimostranti, in alcun casi uno ad uno, spiegando loro la necessità di liberare il parco durante la notte, sebbene l’occupazione potesse continuare nelle ore diurne. Spiegò che, arrivato il giorno dello sgombero, avrebbero potuto scegliere se allontanarsi pacificamente o essere arrestati. Non solo: B. diede ai manifestanti la possibilità di scegliere come essere arrestati, se nell’anonimato, oppure alla presenza dei media, in modo da dare voce e visibilità alla loro causa. Arrivato il tempo di liberare l’accampamento, B. e i suoi ufficiali non indossarono la tenuta antisommossa, consueta in circostanze simili, ma la divisa quotidiana. B., inoltre, si accertò di arrivare per primo al parco, per essere certo che, come prima persona, i manifestanti vedessero quella con cui avevano già avuto modo di parlare, non un estraneo. La maggior parte dei 200 dimostranti abbondarono il parco volontariamente; 19 scelsero di essere arrestati. Non ci fu alcun episodio di violenza, nessuna sommossa.
Chris Charles Burbank è stato l’ospite d’onore della giornata di confronto sui modelli di polizia di comunità e di prossimità che Cittadinanzattiva e la Scuola Superiore di Polizia, con la collaborazione della Ambasciata degli Stati Uniti, hanno organizzato il 14 luglio a Roma, alla presenza di alcuni esponenti delle forze dell’ordine, in qualità di relatori, e degli allievi della Scuola, i futuri commissari del nostro Paese.
Sin dall’inizio del suo mandato, B. ha inaugurato un modus operandi anticonvenzionale rispetto ai suoi omologhi, e che abbia un modo diverso di fare lo si capisce già da come si presenta, con un sorriso aperto e un semplice “Hi, I’m Chris, nice to meet you. It’s a pleasure!”.  E’ un modo di fare vicino alla gente, che cerca di instaurare un contatto immediato con il prossimo, che crea vicinanza e non distacco.
B. crede che obiettivo di un ufficiale di Polizia debba sempre essere quello di usare il minor livello possibile di forza per adempiere le proprie responsabilità, quando invece troppo spesso succede il contrario. Troppo spesso si inizia un’azione ricorrendo al più ampio impiego possibile di forza.
B. è preoccupato del fatto che la Polizia, oggi, dedichi troppo del proprio percorso formativo a come utilizzare differenti tipi di forza; troppo poco alle tecniche di risoluzione di conflitti e a come facilitare il libero dialogo tra le persone. Allontanare i cittadini da ciò per cui stanno protestando – questo il suo pensiero –  non consente loro di comunicare il proprio messaggio.
Sono convinzioni, queste, che riguardano il modo di agire delle forze dell’ordine, ma non solo. Anzi, riguardano soprattutto altro. Hanno a che fare con i rapporti tra le persone; con la forte convinzione che tutte le parti sociali – cittadini, politici, amministratori, forze dell’ordine – siano realmente e fattivamente parte della stessa comunità (sia essa Comune, Provincia, Regione o Stato), con ruoli certamente differenti, ma con pari dignità e rilevanza politica; con il ritenere che il dissenso debba sempre essere lasciato liberamente esprimersi, facilitato e considerato il valore aggiunto, piuttosto che la debolezza, di una comunità. E ancora, con l’opinione che il ruolo del cittadino debba cambiare, trasformandosi da semplice fruitore di un servizio, ad attore fondamentale della vita di una comunità, in grado di offrire un contributo concreto alla programmazione e alla implementazione delle politiche del territorio.
Il 14 luglio si è parlato molto di memoria condivisa, o meglio della sua assenza nel nostro Paese, e di come questa lacuna sia alla base del rapporto teso tra i diversi attori della nostra società, che si guardano con reciproca diffidenza. Memoria condivisa c’è quando c’è limpidità nei rapporti tra istituzioni e cittadini, quando la storia e la politica, e il modo in cui vengono tramandate e raccontate la storia e la politica, sono scevre da censure, da filtri ideologici o di interesse che ne selezionano gli eventi e i fatti da trasmettere, con ovvie ricadute sulla stima della cittadinanza – che stupida non è, che capisce che c’è del non detto, o di qualcosa detto a metà – nei confronti dei decisori pubblici.
Al contrario, il rapporto di fiducia tra istituzioni e cittadini, sebbene sia elemento qualificante delpatto sociale, non può instaurarsi – B. ci dimostra – se c’è opacità di fatti e di rapporti in seno alla classe politica e alle amministrazioni pubbliche, perché l’opacità genera sospetto, e opacità e sospetto insieme impediscono la costruzione di una memoria condivisa, ostacolando il conseguimento della pacificazione sociale per l’oggi e per il domani.
Al contrario, la trasparenza, l’accountability, la garanzia e la promozione del diritto di partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica generano fiducia, desiderio di alleanza, non di contrapposizione pura e semplice, fungendo, in tal modo, da effetto moltiplicatore della partecipazione civica.
Ma come si costruisce questo tipo di fiducia?
In  parte, utilizzando gli strumenti di cui siamo già in possesso, ma utilizzati in maniera sapiente e non burocratica, come mero adempimento formale di una disposizione amministrativa.
Ci riferiamo, ad esempio, alle norme recentemente approvate in tema di trasparenza delle PP.AA.: la legge n. 190 del 2012 e il Dlgs. n.33 del 2013 , due provvedimenti importanti che segnano un passo in avanti nei rapporti tra pubbliche amministrazioni e cittadini, attribuendo ai secondi un ruolo centrale nei confronti della P.A.  In base al principio della trasparenza amministrativa, ogni cittadino – sinora soggetto passivo nel rapporto con la P.A., rispetto alla quale deteneva il ruolo di semplice esecutore di disposizioni – ha il diritto di accedere al patrimonio informativo e documentale della pubblica amministrazione, potendo esercitare, in tal modo, un reale potere di controllo e monitoraggio sulle attività pubbliche. E a fronte di questo nuovo diritto, dunque, si pone l’obbligo, da parte della pubblica amministrazione, di essere trasparente rispetto al proprio operato.
La fiducia si costruisce anche, da parte delle istituzioni, dando dei segnali di reale attenzione a questioni che attengono la vita politica e sociale di una comunità e fortemente sentite da larghe fette della cittadinanza,  ma orfane di soggetti istituzionali che le prendano in carico per tutta la filiera, dal sorgere del problema alla sua risoluzione.
Mi viene in mente la ripresa del dibattito parlamentare sull’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento nazionale, rispetto al quale auspichiamo una rapida conclusione da parte di ambo i rami del Parlamento e la conseguente approvazione della legge. Nel 1989 l’Italia ha ratificato la "Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti", e da allora sono trascorsi 25 anni di tentativi di inserire la tortura nel nostro codice penale, puntualmente falliti per l’opposizione silente, ma fortissima, di larghe fette della politica e non. E anche qui, addio pacificazione sociale. Venticinque anni in cui episodi di tortura sono rimasti impunti perché non riconducibili a un reato specifico, senza comprendere – e ci riferiamo sempre ai soggetti istituzionali – che l’introduzione di questo reato sarebbe strumento di garanzia non solo per i cittadini, ma anche per le stesse forze dell’ordine, la cui  autorevolezza non potrebbe che risultare rafforzata da un efficace sistema di contrasto di comportamenti aberranti.
Come afferma B. “one of the most important traits in a good police officer is empathy”: bisognerebbe che i nostri governanti lo tenessero a mente più spesso.

 

 

Valentina Condò, Ufficio Relazioni Istituzionali Cittadinanzattiva

Valentina Condò

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