L'esperienza referendaria di questi mesi rappresenta una grande occasione di partecipazione alla vita pubblica del Paese. La risposta dei cittadini è stata molto significativa: spesso chi firmava, ha dimostrato di essere già informato e cosciente della necessità e dell'urgenza di un cambiamento; in altri casi, chi è stato raggiunto per la prima volta dalla notizia, ha ascoltato con grande attenzione le ragioni dei referendari riconoscendo la bontà della proposta e dell'iniziativa...
Niente a che fare con tentazioni populiste o antipolitiche, dunque. Al
contrario, un grande senso di responsabilità democratica e la volontà
di dare il proprio apporto alla ripresa del Paese. Per citare un
vecchio slogan di Cittadinanzattiva, un diffuso desiderio di tornare ad
essere "non ospiti, ma padroni di casa della Repubblica".
Ma l'esperienza referendaria ci consegna anche una serie di problemi
aperti che vale la pena evidenziare in vista delle iniziative future.
Primo: la lentezza e l'autoreferenzialità della politica italiana. La
legge elettorale, votata dal centrodestra, è stata fatta propria, nello
stile e nei comportamenti, da tutte le forze politiche; pur essendo uno
dei principali motivi di instabilità dell'attuale Governo, è entrata
nel dibattito politico solo per la pressione dei referendari.
Ciononostante, nessuna proposta degna di questo nome e adeguata alle
esigenze del Paese è emersa dal Governo in carica o dalle commissioni
parlamentari. Ancora una volta la politica ha rinunciato ad esercitare
le sue responsabilità per la riforma del sistema.
Secondo: il silenzio dei sindacati. Se si esclude l'apporto dell'UGL,
il sindacato culturalmente vicino ad Alleanza Nazionale, l'indifferenza
del mondo del lavoro è stata totale; questo rappresenta uno dei sintomi
di quella decadenza progressiva che sembra in questo momento
caratterizzare l'azione sindacale in Italia. Sempre più ancorate a
posizioni di conservazione dell'esistente, tali organizzazioni non
hanno saputo cogliere il referendum come occasione per contribuire alla
riforma del sistema politico italiano; vi hanno rinunciato, evitando di
disturbare il sonno di quel mondo autoreferenziale di cui, tutto
sommato, fanno parte integrante.
Terzo: la debolezza del terzo settore. Anche in questo caso, ci si
aspettava di più da parte delle organizzazioni civiche italiane: a
parte il caso di Cittadinanzattiva, capace di raggiungere ottimi
risultati in un'attività poco abituale come la raccolta firme, sono
state poche e di piccole dimensioni le realtà impegnate; infatti, oltre
alla partecipazione di organizzazioni minori, è stata registrata
un'adesione da parte delle ACLI più formale che operativa. In generale,
è il caso di riflettere anche sul ruolo assolutamente marginale che lo
stesso Forum del Terzo settore ha scelto, rinunciando a rappresentare
il punto di riferimento per la promozione di un impegno civico diffuso.
Quarto: i ritardi dell'informazione. Soltanto in queste ultime ore di
raccolta referendaria la grande stampa nazionale ha ritenuto di doversi
finalmente spendere per lanciare l'ultimo allarme. Meglio tardi che mai
si potrebbe dire. In realtà, va stigmatizzata l'assenza di
informazione, soprattutto da parte del servizio pubblico
radiotelevisivo, che ha impedito alla grande maggioranza degli italiani
di venire a conoscenza dei quesiti referendari. Evidentemente, in
troppi erano consapevoli delle enormi potenzialità di riforma insite in
questa nuova raccolta firme.
Quinto: l'uso politico del referendum. Fin dall'inizio il dibattito
politico sul referendum è stato interpretato in modo strumentale da
media e partiti; tutto risolto all'interno delle dinamiche della
‘casta'. Tutto schiacciato sugli schieramenti trasversali pro e contro.
Certamente, la caratteristica bipartisan delle presenze politiche
all'interno del comitato è un elemento di valore; non lo è altrettanto
l'aver sottovalutato la dimensione civica dell'iniziativa.
Teresa Petrangolini, Segretario generale di Cittadinanzattiva