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Editoriali

punto_10_01_11La Conferenza sul clima di Copenhagen ha ricevuto molte valutazioni negative da parte dei commentatori e, in effetti, lo scarto fra i risultati registrati e gli obiettivi di riduzione dei gas serra ritenuti necessari per contrastare il riscaldamento globale è abissale. È stato sottolineato con forza anche il fallimento dell'Unione Europea, i cui leader sono rimasti al margine del summit che ha avuto come protagonisti Usa, Cina e India da una parte e il G77 dei paesi poveri dall'altra. Ciononostante nel meeting organizzato il 21 dicembre da Legambiente per commentare gli esiti della Conferenza si registrava un clima di soddisfazione e quasi di vittoria per due ordini di motivi.

Il primo era che i grandi oppositori dell'accordo di Kyoto ammettevano finalmente che il problema esisteva e assumevano comunque un impegno. Il passaggio da un no deciso a un sia pur timido si non può essere sottovalutato e apre prospettive importanti, sostenute dalla decisione dei paesi sviluppati di rispondere alle richieste del G77 in termini di corresponsabilità. La strada è ancora incerta e tutta in salita ma ora esiste.

Il secondo motivo era la consapevolezza che questo esito probabilmente non sarebbe stato possibile senza la mobilitazione della società civile, soprattutto europea. Da molti anni, infatti, la cittadinanza attiva è stata capace di mantenere alta l'attenzione sui temi ambientali, non tanto (o almeno non soltanto) con le azioni clamorose dei gruppi radicali, ma con l'azione quotidiana di decine di migliaia di cittadini che sono intervenuti sia come promotori di politiche che come produttori e consumatori.

Per quanto riguarda il primo aspetto, le organizzazioni hanno svolto una costante opera di sensibilizzazione, informazione ed educazione, di monitoraggio del territorio, di lobbying e di interlocuzione istituzionale e sono state anche capaci di aprire confronti diretti con le imprese, che a volte hanno generato precisi programmi di responsabilità sociale. Senza questa presenza, la produzione degli impianti normativi nazionali e comunitari e degli interventi che, con tutti i limiti che si vuole, consegnano all'Europa un primato indiscutibile e dimostrano la praticabilità delle politiche di compatibilità ambientale, forse non avrebbe superato le grandi resistenze esistenti (e tuttora attive).
I cittadini sono anche diventati produttori di energia da fonti rinnovabili e mettono in atto consapevoli strategie di risparmio domestico. Col tempo questa attività ha ampiamente superato il livello della testimonianza ed ha indotto sviluppi tecnologici e produttivi del tutto importanti. Vari piani energetici nazionali prendono seriamente in considerazione questa risorsa attribuendole un peso rilevante, anche il 20% della produzione totale di energia (e qualcuno potrebbe legittimamente dire che siamo soltanto agli inizi). Molto spesso, però, lo status dei cittadini produttori resta precario, in quanto abbandonato alla discrezione delle amministrazioni e degli enti produttori.
Gli interventi di sensibilizzazione ed educazione hanno favorito la formazione di consumatori consapevoli che oggi, in molti paesi, hanno, almeno in linea di principio, la possibilità di personalizzare i contratti di forniture e quindi di influenzare direttamente il comportamento degli enti produttori.
È una opportunità tutta da sviluppare per evitare che l'iniziativa resti in mano soltanto a questi con il rischio di riprodurre la babele dei contratti della telefonia. Se queste considerazioni sono vere, il dopo Copenhagen convoca le organizzazioni civiche europee a nuove responsabilità: la pari dignità dei cittadini produttori e consumatori è ancora tutta da promuovere, le azioni di responsabilità sociale di impresa sono ancora troppo poche e, forse, anche troppo timide, il rapporto con gli enti di regolazione e controllo deve fare un salto di qualità, e, se si vuole che il prossimo appuntamento a Città del Messico sia un vero passo avanti, bisogna elevare la capacità di pressione e di lobbying. I convenuti al meeting di Legambiente hanno condiviso l'analisi sopra proposta e la necessità di trovare campi di azione comune per fare fronte alle nuove responsabilità, praticando più intensamente anche la dimensione europea.


Giovanni Moro nel suo ultimo libro - Cittadini in Europa - dimostra che la cittadinanza attiva è parte integrante, anche se non compiutamente riconosciuta, di quello che lui definisce giustamente "l'esperimento democratico europeo". L'intervento sui temi ambientali - come su un altro versante la Carta europea dei diritti del malato - conferma questa affermazione e convoca tutti a prenderla sul serio. Le organizzazioni civiche devono, probabilmente, maturare un ulteriore consapevolezza e una più forte capacità di collaborazione. Le istituzioni nazionali e comunitarie devono imparare a fare meglio i conti con i cittadini. Se gli opinion maker di vario tipo riservassero a questi temi una attenzione proporzionata a quella che dedicano agli arretramenti dei governi nazionali, forse avrebbero una visione meno cupa del futuro e l'esperimento democratico europeo avrebbe una chance in più per evitare lo stallo.

Alessio Terzi
Presidente nazionale di Cittadinanzattiva

Redazione Online

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