Tante parole si sono spese per la tragedia di Lampedusa, l’ultima in ordine di tempo ed una delle più gravi per il numero delle vittime, molte delle quali ancora sul fondo del mare.
Tante le parole ufficiali di cordoglio e di partecipazione contrita ad un “lutto nazionale”, gli impegni solenni perché non accada mai più, le costernate affermazioni di chi, al contrario, come il Ministro Alfano, annuncia che questa non sarà l’ultima tragedia.
Al contempo, ci si è affrettati a declinare responsabilità, perché l’Italia si scopre, all’indomani dell’ennesima e più che annunciata strage di profughi, sola ed abbandonata dalle istituzioni europee nel fronteggiare una nuova emergenza umanitaria.
O peggio inerme di fronte ad una inevitabile fatalità o ancora impotente nei confronti di organizzazioni criminali che gestiscono trafficanti di esseri umani, scaricando continuamente al largo delle nostre coste centinaia di persone. Non potevano, poi, mancare alcuni ignobili tentativi di speculazione da parte di chi non si fa scrupolo di strumentalizzare persino i morti per attaccare l’avversario politico e rilanciare, anche nell’ora più triste, la propaganda securitaria dei respingimenti e della chiusura delle frontiere.
Questa profusione di parole suona vacua ed ipocrita.
Si dice che siano 20.000 le persone morte in mare al largo delle coste italiane dal 1988 ad oggi; delle morti in parte legate alla cosiddetta migrazione economica, altre alla fuga da “conflitti civili” e da regimi che, il più delle volte, allo stesso civile occidente fa comodo che restino in piedi o vengano rovesciati in nome di un improvviso bisogno di esportazione di democrazia che, invero, ricorda tanto la pax romana di tacitiana memoria.
Alle porte della fortezza Europa, che difende i propri confini da questi pericolosissimi invasori con il sistema Frontex l’Italia si distingue per le proprie politiche di “governo dell’ immigrazione” che, oramai da oltre un decennio, oscillano tra la logica dell’emergenza e quella della tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza.
Nei salotti bene della sinistra radical chic si discetta da tempo su quale debba essere il modello italiano di integrazione, se sia preferibile il multiculturalismo anglosassone o l’assimilazionismo alla francese; si conviene che l’immigrazione in questo paese è un fenomeno strutturale e non emergenziale, che “i migranti” sono una risorsa e non un pericolo, ci si accorge che “volevamo braccia e sono arrivate persone”. Nel frattempo si sono succeduti negli anni la legge Bossi-Fini, il “pacchetto sicurezza”, si sono ristette le maglie del diritto di asilo, si sono proclamati gli stati di emergenza con conseguente adozione di provvedimenti straordinari, si è consegnata alla speculazione privata la gestione dell’accoglienza delle ultime ondate di profughi.
Ed è grazie a quelle opzioni decise per una sicurezza nazionale e fatte prevalere sui diritti fondamentali dei migranti che i sopravvissuti al naufragio di Lampedusa si ritrovano tutti indagati per il reato di ingresso e soggiorno illegale. E che si è ventilata la possibile incriminazione dei cittadini lampedusani, impegnati nel soccorso delle vittime, per il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
In questo mare di contraddizioni e al di là delle vacue scuse dei politici e governanti, si distingue la sincera reazione dei tanti che oggi, senza mezze misure, chiedono l’integrale abrogazione della legge Bossi-Fini.
E se qualche primo segnale arriva anche dalla politica, con la notizia di un primo passo per l’abrogazione del reato di ingresso e soggiorno illegale, i cittadini attivi, come dice Stefano Rodotà, indicano la strada dell’altra politica, quella dei diritti.
Chiedere oggi di cancellare la Bossi-Fini significa lanciare un messaggio chiaro e deciso di condanna e commiato dalle politiche nazionali finora perseguite e dalla impostazione securitaria e fondamentalmente razzista che le ispira. E mettere decisamente un punto e a capo e ripensare a politiche nuove, radicalmente alternative a quelle della criminalizzazione dei sans papiers.
E’ un messaggio che, per questo, va condiviso e rilanciato.
Laura Liberto, Coordinatrice nazionale di Giustizia per i Diritti