Mentre tutte le attenzioni erano rivolte alla Norvegia e, relativamente al nostro Paese, alle polemiche innescate dalle dichiarazioni di Borghezio o alla nomina del nuovo ministro della giustizia, si è consumato l’ennesimo tentativo della maggioranza parlamentare di ridimensionare il ruolo del giudice, inibendogli la facoltà di ridurre le liste testimoniali delle parti. Le liste testimoni sono spesso vere e proprie lenzuolate, con conseguente ovvia possibilità di allungare a piacere i tempi del processo.
Per non farci mancare niente, ecco l’altra chicca: l'inutilizzabilità delle prove acquisite in altri procedimenti.
Questi sono i due emendamenti introdotti dalla Camera nell’ambito del Disegno di legge n. 2567, il quale tratta l’inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo, di cui si sta discutendo in questi giorni in Senato. La cosa ci provoca ovviamente sconcerto ed irritazione.
Queste scelte dimostrano che la strada intrapresa dalla maggioranza Parlamentare va ancora nella direzione diametralmente opposta a quella indicata dai cittadini nell’ultimo referendum: un chiaro e partecipato no al legittimo impedimento e, quindi, un no alla concessione di privilegi a pochi eletti.
Hanno implicitamente espresso anche l’auspicio di vedere apparire all’orizzonte una nuova classe dirigente che sappia mettere al primo posto l’interesse generale del Paese e che, in tema di giustizia, inverta la tendenza attuale che si è svelata essere quella di adottare leggi funzionali, in un modo o nell’altro - accorciando i tempi per la prescrizione del reato o cancellando d’imperio i poteri del giudice od anche introducendo cavilli - solo a far scorrere il tempo per allontanare l’esito naturale del processo ovvero l’accertamento della verità processuale e la conseguente condanna per reati eventualmente commessi dall’imputato.
Non tranquillizza i cittadini nemmeno l’attuale progetto di Riforma costituzionale della giustizia penale del Governo perché ridimensiona da un lato la figura del Pubblico Ministero, sottraendolo all’area di autonomia e indipendenza da riservare ai soli magistrati giudicanti e, dall’altra, estromette il suo ruolo dall’ambito della giurisdizione per ricondurlo a quello di una sorta di avvocato dell’accusa o avvocato della polizia. Cancella la possibilità di proporre appello da parte del Pubblico Ministero contro una sentenza di assoluzione in primo grado, mentre rimane integra la facoltà dell’imputato di coltivare tutti i gradi della giurisdizione. Modifica la norma costituzionale (art. 109) che assicura la dipendenza della Polizia Giudiziaria al Pubblico Ministero, stabilendo che le modalità di tale rapporto saranno regolate con legge ordinaria, mentre è pronto un disegno di legge (n.1440) che prevede di sottrarre alla dipendenza del PM le funzioni di Polizia Giudiziaria per riservare alla stessa Polizia Giudiziaria l’esclusività della notitia criminis e quindi dell’apertura o meno di una indagine. Prevede infine che l’azione penale, pur rimanendo obbligatoria secondo il dettato dell’art. 112 c.p., dovrà tuttavia uniformarsi ai criteri stabiliti per legge. In altre parole sarà il Parlamento con legge ordinaria, e quindi le maggioranze che di volta in volta si stabiliscono, a determinare le priorità nella persecuzione dei reati cui i Pubblici Ministeri dovranno attenersi.
Il nuovo assetto disegnato dal progetto di riforma costituzionale, ma anche ciò di cui si sta discutendo al Senato, non incide in alcun modo sulla durata dei processi, vero problema della giustizia italiana, ma incide negativamente sul controllo di legalità e sul principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge poiché non consente al magistrato inquirente di esercitare la propria funzione con indipendenza ed autonomia.
Mimma Modica Alberti, Coordinatore nazionale di Giustizia per i Diritti